venerdì 31 agosto 2012

Eterna risurrezione



Parole, lettere come ami, come chiodi per carpirti con disperata ostinazione e fissarti a me, lungo queste pareti scrostate di memoria e speranze confuse. Poi le scorro una ad una, anche se tante volte me ne sfugge il senso. Quante volte l’ho rincorso, morendo poco a poco ad ogni slancio, frantumandomi contro vetri celati dagli abbagli del sole. E quante volte mi sono rialzata per riprendere la mia corsa cieca e folle, il mio volo ubriaco e sbilenco. Ubriaca di questo non-senso che m’annega il cuore. Tu, che mi scorri in punta di versi, voltando le pagine, a volte strappandole, altre solo piegandole. Annusandole come si fa con le rose. O con la pelle morbida dei lattanti. Tu che le leggi, mi leggi e m’interpreti, con la voce profonda dell’Abisso. Dimmi. Rivela il tuo Oracolo dentro un nuovo bacio. E lascialo lì, così saporito fra i miei denti e la gola, a rotolare in silenzio, come una delle mie tante lacrime che non hai succhiato, che ti ho taciuto perché eri voltato nel tuo dolore sdegnato e sdegnoso. Ma solo per poco. Appena un po’. Per poi apparire di nuovo al tramonto e farti subito Alba per me, ancora e ancora. Prima di vedermi schiantare a terra e poi raccogliermi come si fa con gli uccellini caduti giù dai nidi, sopra rami incerti e piegati. Battuti dal vento. E quanto mi batte – a me! – questo vento. E sferzando furioso, mi sgretola pezzo a pezzo. Sei tu che lo hai soffiato spietato. Ma pure, ti prego, continua ancora a raccogliermi e a conservarmi nelle tue tasche, fra le pieghe delle tue sciarpe e dei tuoi sorrisi, dei versi che dalla tua pancia srotoli nella mia, dentro una bottiglia da affidare ai flutti della nostalgia, quando lasci il mio porto senza destinazione. Di queste lacrime, che cadono a terra a catinelle, di queste lacrime che si sfaldano al vento, sul mio mento, di queste lacrime che getto via dagli occhi ma che sempre ritornano - come fanno i cani abbandonati alla ferocia sanguinaria di una strada - di queste lacrime che ti chiamano nel loro dignitoso silenzio, come una misericordiosa carezza lungo il declivio delle tue palpebre pensanti. Di queste lacrime, dico, io vorrei farne perle preziose e incoronarti Re. E io, tua Regina, dormirei aggrappandomi allo scoglio del tuo fianco, con la testa dondolata dalle onde del tuo petto e la gamba dolcemente intrecciata fra i coralli delle tue. E ti darei tutti i colori che sapresti indossare, perché tu sei un prisma di luce, che scompone Amore e poi lo proietta ovunque nelle mie mani, nei miei polmoni e sempre più in fondo, dentro i miei intestini. Amore amore amore disperatamente amore! Amore che mi prende e che mi stende, mi getta lontano e mi riprende. Amore senza inizio e senza fine, uroboro che mi succhia sangue e inchiostro dalle vene. Ed è per ciò che fremo, morendo a poco a poco, in un’eterna risurrezione.

© 2012 by Maela

giovedì 30 agosto 2012

Novelle Cousine


 


Un foglio di luce penetra dalla fessura centrale della pesante tenda verde. Globuli danzanti di pulviscolo lo attraversano leggiadri e caotici, come minuscole fatine, conferendogli un che di etereo e surreale. Mi fa male la testa e mi bruciano gli occhi. Non riesco a stabilire precise connessioni fra i pensieri confusi, che si affastellano nella mia testa, e gli ultimi eventi e resto così, inebetita sul divano, a fissare le fatine danzanti per un tempo indefinito. Cinque minuti, o forse cinque ore. Penso di avere anche un polso rotto, perché non riesco a muoverlo. Questa volta, Franco ha proprio esagerato, ma almeno si tratta del polso sinistro, magari riesco a preparare lo stesso da mangiare.

Per terra intravedo la sagoma di una sedia con lo schienale spezzato e buona parte della biancheria da stirare sparsa sul pavimento. Che buffo... Sembrano indumenti svuotati dei loro corpi, come per effetto di un terribile castigo divino. Puff! Polverizzati all’istante. Decido che devo alzarmi e, a fatica, faccio leva sul braccio sano, scendendo dal divano. Devo avere dei lividi su una gamba che è indolenzita... Mi trascino barcollando verso la finestra, ma un dolore lancinante mi trafigge la pianta del piede. Guardo in basso e nel fascio di luce che si allarga sul pavimento, vedo brillare frammenti di vetro blu. Un flash improvviso sul pesante bicchiere che attraversa la stanza verso di me, mancandomi, mi scuote come un pugno in pieno viso. Il bicchiere si è infranto sulla parete, esplodendo in migliaia di piccole schegge impazzite. Poi il buio.

Devo prendere la scopa e ripulire tutto, per terra è un vero schifo. Tiro da un solo lato la pesante tenda, voglio vedere dove si trova il sole e farmi un’idea di che ora siano. La luce improvvisa mi colpisce gli occhi e il dolore alla testa schizza subito in pole position fra tutti gli altri che mi stanno torturando con insistenza e perfidia. Eppure, fuori è grigio, nonostante non ci sia neanche una nuvola. Grigio è il cielo, grigi i caseggiati, il fumo delle ciminiere, gli alberi sparuti, le persone libere. Grigia la mia intera esistenza. Tiro anche l’altro lato della tenda, mi volto con molta cautela e mi guardo intorno: il soggiorno sembra un campo di battaglia. Avverto, inaspettatamente, un fastidioso rigurgito di ansia, impastato di terrore e vengo assalita da una frenesia incontenibile ai limiti del delirio, accesa da un’improvvisa, spaventosa consapevolezza: se non riesco a sistemare tutto prima che lui torni, per me sarà la fine!

Con un considerevole sforzo, cerco di alzare la gamba indolenzita per controllare se nel piede si sia conficcato un pezzo di vetro, ma perdo l’equilibrio e cado faccia avanti. Non posso fare granché per attutire la caduta con il braccio già compromesso. Così mi ritrovo a terra, bocconi, inerme, devastata. Avverto un conato di vomito salire dalle profondità più oscure del mio essere, provocandomi un tremore incontrollato per tutto il corpo e forti spasmi muscolari. Sono un animale in trappola, e come tale comincio a ululare selvaggiamente, in maniera incontrollata, isterica, senza pudore. Non mi importa se i vicini mi sentono: che sentissero pure, che sapessero tutti cosa succede in questa casa, che non è una casa, è un inferno! Ma tanto è inutile, nessuno mi sentirà, e se anche fosse, farebbero finta di niente, come sempre. Ho male ovunque, fuori e dentro di me, ma continuo a urlare con tutto il fiato che ho in gola, fino a sfinirmi. Allora mi lascio andare, finalmente, a un pianto disperato. Fino a quando il dolore alla testa, al braccio, al piede, alla gamba, diventa un tutt’uno col dolore della mia anima. Dio mio, come ho potuto arrivare a questo punto? Come?

Improvvisamente, prendo coscienza di me, di ciò che ero e di ciò che sono diventata. Un tempo, ormai molto lontano, sono stata umana. Avevo dei genitori che mi volevano bene, degli amici, una vita mia, tutta mia… Ma ora non più. Ora non sono che l’ombra di quella persona. Senza sostanza, senza speranza, solo uno sterco senziente, una vecchia puttana sfatta. Di quella creatura, neanche un lontano ricordo: dei suoi occhi vivaci, del suo corpo fresco e carico di promesse, dei suoi sogni, della sua voglia di vivere… Nulla. Non è rimasto più nulla… Il diavolo bastardo le ha portato via tutto, gettandolo nella sua geenna e cancellandone ogni traccia. E il suo Dio se ne è rimasto beatamente lassù, a guardare. Non ha alzato un dito, non un cenno del capo, niente. Semplicemente, se n’è fregato.

Bene. Adesso non ho più un Dio che possa giudicarmi, perché l’ha già fatto, scagliandomi in questo inferno. Sono rimasta sola. Il diavolo mi ha fatto terra bruciata intorno. Sono sua prigioniera e condannata a vita. E’ la punizione che mi è spettata per aver trasgredito. Onora il padre e la madre, è scritto. E io non l’ho fatto.

Ho conosciuto Franco a diciassette anni. Me lo aveva presentato Monica, la mia compagna di banco. Prima di lui, avevo avuto soltanto un tiepido, seppur tenero flirt con un ragazzo della parrocchia che frequentavo con la mia famiglia, col quale mi ero scambiata al massimo qualche innocente bacetto e niente di più. Figlia unica, genitori piuttosto all’antica - dei bacchettoni, insomma - che controllavano in maniera quasi imbarazzante ogni mio movimento. Non che mi muovessi poi molto, a dire il vero, dal momento che la mia vita si svolgeva prevalentemente all’interno di un’area molto circoscritta, rappresentata da casa, scuola e chiesa. Naturalmente, questo mi aveva precluso la possibilità di fare un po’ di sana e opportuna esperienza con i ragazzi. Ero anche carina, mi dicevano, ma decisamente timida e imbranata. Monica, invece, era il mio esatto opposto. Dotata di una bellezza da pin up e di una vivace personalità, attirava i ragazzi come le api col miele. Io, che l’amore lo avevo praticamente conosciuto attraverso i romanzetti rosa, la ammiravo quasi come fosse una dea, invidiandola in segreto per la sua popolarità e soprattutto per quel suo carattere così spigliato e disinibito, che invece, purtroppo, non apparteneva a me.

Un giorno Monica, durante l’ora di italiano, si girò verso di me e mi chiese: ti andrebbe se ti presentassi uno? E’ un tipo fico!

Il fico in questione, era lo stesso con il quale lei era stata insieme appena un mese prima e per un periodo brevissimo. Me lo aveva descritto come uno un po’ spudorato ma comunque molto simpatico, sebbene fra loro non fosse scoccata la scintilla, chissà come mai... Era più grande di noi di ben sei anni, praticamente un uomo! Pensai che questa avrebbe potuto essere l’occasione per farmi anch’io, finalmente, la mia rispettabile dose di esperienza: e sarebbe stata anche ora! Così accettai di incontrarlo. Naturalmente di nascosto dai miei.

Con la scusa di andare a studiare a casa di Monica, organizzammo un incontro a quattro. Di quella giornata devo dire di non ricordare quasi nulla, a parte il fatto che Franco non mi fece proprio una grande impressione, né fisicamente, né come persona. Ma se Monica me lo aveva sponsorizzato così tanto, era molto probabile che mi sbagliassi. Accettai quindi un successivo incontro a due. Anche la mia seconda impressione non si discostò di molto dalla prima. Però mi lasciai baciare e scoprii a cosa servisse la lingua, oltre alle funzioni fisiologiche a me già note. Al secondo appuntamento, lui già mi frugava dappertutto con mani frenetiche e sfrontate e io, ancora, lo lasciai fare, perché non potevo certo fargli capire quanto fossi pivellina e inesperta, per carità!

Al terzo appuntamento, mi prese in auto, che aveva parcheggiato lungo il marciapiede di una zona periferica della città, poco frequentata. Io non volevo, soprattutto non così, ma le sue urgenze avevano la priorità assoluta sui miei desideri e le mie paure. Quello fu il giorno in cui morii. Prima di penetrarmi e uccidermi, si preoccupò di coprire goffamente con il mio cappotto i nostri corpi - il suo, quello di una bestia in calore; il mio, tremante come quello di un piccolo cerbiatto - per celarli agli sguardi curiosi degli sporadici passanti. Avvertii un dolore bruciante, misto a un intenso, sconosciuto e riprovevole piacere. Il tutto, grondante profonda vergogna e umiliazione...

L'eco antica di quel suo sesso arrogante, che piombava a picco sulla mia incoscienza, sbava ancora, molesta e blasfema, sulle pagine stropicciate della mia memoria, a squarciare, con la stessa identica sfacciataggine, il denso velo del mio sacrario. Tutto il mio mondo prese ad accartocciarsi bruciando, come in una vecchia pellicola proiettata su un grande schermo: i volti delle persone della mia vita, il mio cane, il mio pianoforte, le mie matite da disegno, i miei colori, la mia cameretta; tutti i miei progetti si ritirarono crepitando in enormi buchi incolore, fino a quando non rimase altro che uno smisurato, angosciante, delirante nulla.

Da quel giorno, sono sopravvissuta grazie alla mia più grande e unica risorsa: la mia provvidenziale capacità di dissociazione. La sua non era solo violenza fisica, ma anche e soprattutto psicologica. Così, ogni volta che la sua furia veniva liberata, scatenando intorno a me e dentro di me la sua azione devastante, io schiacciavo un interruttore e uscivo dal mio corpo, limitandomi ad osservare la scena dall'alto.

Lui era un gigante, con le mani a pugno e le sue pretese di amore malato incise a sangue sulla mia pelle e sulla mia anima. Vischioso, è colato in ogni crepa della mia esistenza. E se ne è appropriato. Così di me non è rimasto più niente.

Franco comprese subito che io non avrei mai avuto la forza di oppormi a lui, che di me avrebbe potuto fare tutto quel che voleva grazie alla sua subdola capacità di manipolarmi, confondendomi e abbassando ulteriormente la mia già scarsa autostima. Al punto da rendermi assolutamente dipendente da lui e strapparmi al mio mondo, che, per quanto soffocante, era tutto ciò che di più bello e di più amabile possedevo.

Ora, ho quel che mi merito. Punto. Lui mi ha sepolta viva dentro questa casa, che è diventata la mia tomba. Da qui non esco mai. Non posso. O meglio, solo in caso di estrema necessità – se devo andare dal medico, oppure raggiungere il pronto soccorso, per esempio – e comunque sempre accompagnata da lui. Io gli scrivo la lista delle cose che mancano in casa e lui le va a comprare. Non abbiamo il telefono, così non posso avere alcun contatto con il mondo là fuori. Ha fatto mettere delle pesanti grate di ferro alle finestre, nonostante abitiamo al sesto piano. Forse per timore che mi possa gettare di sotto, chissà. E ha fatto anche insonorizzare tutta la casa, così nessuno può far caso alle sue sfuriate e alle mie urla.

Cerco di tirarmi su, con estremo sforzo, ma non riesco ancora a fermare le lacrime. Il dolore al polso è lancinante, non ce la faccio proprio a sopportarlo! Mi trascino quindi alla finestra, la apro e comincio a gridare disperatamente e a chiedere aiuto. Vedo teste che si alzano verso la mia direzione. Qualcuno si ferma, mi indica col dito. Qualcuno, di rimando, mi urla qualcosa che non riesco a sentire. Allora io grido ancora più forte: Vi prego, aiutatemi! Aiutatemi! Ho bisogno di aiuto!

Dal bar di fronte esce il proprietario. Lo vedo, col suo grosso capoccione pelato e il pataccone d’oro che gli brilla sul petto villoso, gesticolare rivolto ai passanti fermi a guardarmi, roteando il tozzo dito indice all’altezza della tempia. E’ amico del diavolo. Anche lui, vuol farmi passare per pazza. Franco è il suo fornitore principale di coca, per cui non ha nessun interesse a farselo nemico. Vedo le teste abbassarsi di nuovo e ciascuno proseguire come se niente fosse, come se io non esistessi neanche. Aiutatemi… La voce mi si smorza in gola. E’ inutile, è sempre tutto inutile.

Mi volto verso lo sconquasso del soggiorno. E’ meglio che mi metta a lavoro. Se solo il maledetto polso non mi facesse così male! Mi chino per raccogliere gli indumenti sparpagliati sul pavimento e mi accorgo che ci sono tracce di sangue per terra. Una piccola scaglia di vetro si è conficcata nel dito del piede. Me la levo e resto per un attimo ad osservarla. Poi guardo il pavimento. E’ pieno di briciole di vetro. Alzo lo sguardo verso il sole, è molto alto: è ora che io cominci a mettere un po’ in ordine e a cucinare. Prendo la scopa. In qualche modo riesco a raccogliere i pezzi di vetro, ma non li getto nel secchio. Li metto dentro un setaccio e li sciacquo per bene nel lavello della cucina. Poi li adagio sopra un canovaccio, che ripiego in quattro, in modo che rimangano tutti insieme al suo interno e con il martello li frantumo ulteriormente, quanto basta. Dal frigo, prendo la carne da macinare, un cavolo, la pancetta, un uovo, il parmigiano grattugiato, un po’ di prezzemolo, una cipolla e il burro. Lavo il cavolo, togliendo il torsolo e le foglie esterne e sbollento quelle centrali più tenere in acqua salata, quindi le asciugo con un panno. Passo due volte nel tritacarne la polpa di manzo, la pancetta e una mollica di pane. Raccolgo questo impasto in una terrina, aggiungo l'uovo, le briciole di vetro, il parmigiano, un cucchiaio di pangrattato, sale e pepe e amalgamo bene il tutto. Trito uno spicchio d'aglio e lo aggiungo all'impasto insieme al prezzemolo, mescolando accuratamente. Man mano che procedo, il dolore al polso sembra essere anestetizzato dal mio improvviso fervore culinario. Procedo tagliando a fettine la cipolla e la soffriggo con un po' di burro in un tegame. Dispongo un poco dell'impasto della terrina su ogni foglia di cavolo, avvolgendola e legandola con il filo bianco da cucina. Faccio rosolare nel tegame le polpette così ottenute, bagnandole con quattro cucchiai di aceto balsamico e le cuocio a fuoco moderato per 10-15 minuti.

Sento un profumino delizioso spandersi nell’aria e sono pervasa da un’inaspettata quanto sorprendente euforia: sono certa che a Franco piaceranno da morire!

 

© 2012 by Maela 

mercoledì 29 agosto 2012

Dedicata

E' un deserto il tuo cuore
ove il navigante
vanamente ritroverà la sua meta.
Arido terreno incolto,
ove ogni seme disseccherà miseramente.
organo dall'unica funzione vitale,
crudele e glaciale
freddo, come un'enorme lastra di ghiaccio..
Capace di distruggere ogni puro sentimento
tramutandolo in un'accordo di odio-amore.
Ogni donna è uno strumento nelle tue mani
per sentirti amato, desiderato, "uomo"
e la tua vanità, il tuo orgoglio maschile
solo così sarà appagato.

 © 1987 by Maia

martedì 28 agosto 2012

Come fanno le farfalle


Non chiamarmi col tuo canto
Mentre avvolta dalla notte
Discendo nelle scure acque 
Accesa da un bacio lunare.
Non trattenere il mio volo,
Apri solo le tue braccia
E fammi ancora librare
Fra le corolle del cielo.
Ma pure resterei se tu
M’invocassi nel tuo palmo
E morrei senza rumore 
Come fanno le farfalle.

© 2012 by Maela

domenica 26 agosto 2012

...SE...




 Voglia d'amarti,
nell'immensità d'una notte
nel mentre il guardo mio
volge ad una stella
ch'io dedico a TE.
E il desiderio d'averti

s'accende
allorchè le braccia vuote
cercano
il calore della tua pelle,
tra i freddi lini.
E dell'esser mio...dell'esser tua
non è oggi
fors'anche domani
non importa
...purchè sia.

© 1986 by Maia







Io...tu...una storia

  
Vissi fanciulla sia pure a trent'anni,
trascurando l'era che vuole bimbe in boccio,
già vissute in età adulta.
Fanciulla nei sogni, negli ideali, nei sentimenti.
Nacqui donna fra le tue braccia,
in quell'ora d'amore
in un contempo di emozioni mai provate.
Tu, scultore della mia anima, che plasmasti per te
e frantumasti senza pietà.
Fu un invito
accettato per noia, artefice del nostro incontro
quella sera d'estate d'un vent'otto luglio...
sabato, ancora ricordo...io timida...
non mi piacevi, mi piacesti...poi.
Il primo bacio,
sulla soglia di casa mi colse impreparata,
assaporavo le tue labbra, traendone il succo
d'un frutto goloso e fresco di rugiada.
Rientrammo.
Seduti sul sofà, le nostre mani si cercavano
tra il nero manto di quel gatto
ch'io carezzavo nervosamente
per trarmi d'imbarazzo.
Caro anche lui, tra i miei ricordi,
sempre presente ai nostri incontri,
testimone discreto
forse anch'egli serba nelle verdi pupille,
uno sprazzo di quella nostra estate.
Via Ortensia,
un nome ch'era tutto un programma...
lì nacqui, vissi e morii.
Rammento ancora quelle fronde
che sfioravano i nostri capi nel passaggio,
ed ogni volta minacciavi di incidere,
ma non tagliasti mai.
Mani di velluto sul mio cuore,
che lacerasti col tuo addio
senza che sarto ne potesse risanare i brandelli.
Condannata senza processo,
senza il tempo di capire...
sbagliasti tu...sbagliai io?
Non vi fu confronto.
In gran certezza, posso sol dire
che non vi è peggior reato
di colui che sottrae spensieratezza,
ferendo l'animo, l'orgoglio, senza facoltà di difesa.
Mi negasti ogni altra alternativa,
decidesti e tutto finì.
Colui che va processato
chiede ed ottiene appello...non fu così per me.
Mi annullai in te divenendo la tua ombra,
nutrendomi del tuo ossigeno
e mi beavo nel rimirarti,
fiera di amarti e di essere da te amata.
Raccolsi i sogni e ne feci una ghirlanda
per adornarti il corpo e le membra.
Ti conobbi, ti amai, come fosse da sempre
e per sempre.
L'orologio del tempo fermo sull'ore
del nostro ultimo incontro
passato già e mai scordato.
Io, tu...una storia
Primi passi d'un romanzo d'amore
non ancora terminato.
Un capitolo di vita in bianco
quei fogli restanti in attesa d'essere vergati.
Il tuo nome in grassetto...un'accorato richiamo.
Torna...è ad ogni voltar di pagina
...torna...ho bisogno di te.

 © 1986 by Maia


venerdì 24 agosto 2012

D'Amore e Arte (prima dell'Alba)



Si aggrappavano disperatamente a quei rari scampoli di eterno, fusi in un corpo solo, incandescente, famelici di baci e saliva e carne e occhi e bocca e intrecci di gambe e dita. Caotici e impazienti, ad ogni gesto, ad ogni scatto accidentale - del bacino, del viso, di un arto - irradiavano per la stanza i colori dell’arcobaleno, imperlati di fluidi desideri: sulle pareti chiare, i tessuti del letto, sui quadri che li guardavano compiacenti, dentro i loro sguardi persi e profondi come pozzi neri.  

Erano due angeli caduti, in volo estatico nelle spirali di un cielo straniero, dimentichi di un mondo che non li avrebbe mai accolti. Ballavano, vibrando lucenti nel silenzio ovattato di quel cielo straniero, sfiorando stelle dorate e facendole esplodere in frammenti scintillanti, che precipitavano a terra in trilli gioiosi. L'universo si disgregava all’infinito e loro danzavano ancora, sulla punta dei loro sospiri.

Non potevano disperdere alcun istante, ne raccoglievano, con coriacea ostinazione, ogni prezioso brandello, cristallizzandolo nel deposito segreto della memoria.

Lui la plasmava come materia grezza, amorfa e marmorea. Teneramente incideva ogni disturbo, spigolosità, asprezza, ogni impertinente protuberanza. Lei si lasciava creare sotto le sue mani, assaporava il succo agrodolce del piacere che ne scaturiva, si abbandonava a quel brivido inatteso, vibrante in ogni molecola di sé, che congiungeva il suo mondo con le sfere celesti. E mentre  la partoriva in un intimo travaglio di fuoco e tempesta e le sue forme, da sempre prigioniere di strati ingombranti - di credenze, principi e amorevoli ricatti - venivano alla luce, anche lui cambiava, in egual misura, con la medesima ineluttabilità e, incredulo, se ne beava. 

Ella lambiva, come le dolci acque del mare, i suoi dolori, le sue paure, le sue bugie, i suoi tormenti. S’infrangeva balsamica sulle sue coste rocciose, facendosi per lui, soltanto per lui, morbida spuma bianca e lasciandogli in dono le sue conchiglie feconde e frammenti di fulvi coralli.

Materia e scultore si scambiavano vicendevolmente, in un’armoniosa liturgia di spirito e mente, si avvolgevano in vortici profani, diluendosi in un unico organismo di anima e carne. Fino a quando più nessuno, guardandoli alla luce del sole, li avrebbe potuti distinguere.

Intanto l’alba prese a strisciare con l’incedere di un’amara melodia, sebbene addolcita dai loro effluvi vitali e primigeni e, ancora avvinghiati, attesero l’ombra del distacco, avvolti nell’eco di indissolubili promesse.

© 2012 by Maela

giovedì 23 agosto 2012

Il tuo nome nell'aria



M'incammino sotto la pioggia,
incurante dell'acqua che bagna i pensieri
e scivola sul tuo nome.

Vecchi ricordi spazzati dal vento,
memorie lontane ormai sbiadite
e il tuo nome nell'aria.

Un raggio di sole smorzato nella sua luce,
una gioia soffocata,
una stretta al cuore nel pronunciare il tuo nome

... nome adorato
più volte sussurrato nelle lunghe,
interminabili notti insonni,

mentre l'angoscia logora l'anima,
la mente rincorre i giorni andati
d'una felicità ormai perduta.

© 1986 by Maia





Un Amore davvero/2


Si pianse dentro alle ultime parole di lui. Rigida, senza il sussulto di un singhiozzo, il libro stretto e ancora aperto tra le mani. Fuori, non poteva più versare nulla, era in credito di lacrime. Gli occhi secchi, inariditi, infiammati da quell'esasperato addio: 

"... Non posso più attenderti..."

E' così, allora, che può finire la storia di un AMORE DAVVERO?

mercoledì 22 agosto 2012

Amare...sognare...morire



Cercavo ossigeno per vivere,
incontrai te
e di te vissi l'illusione di un momento,
una breve speranza fra te e lei.

Mi frapposi fra voi, intrusa spettatrice
nutrendo un amore che palpitava in me,
come un bimbo nel grembo materno,
tanto agognato e tanto atteso.

Ti persi...prima ancora d'averti.
Pazza, pazza a pensarti...ma se amare
vuol dire pazzia
allora si, sono pazza d'amore per te.

Addio amore...addio...
Addio ai sogni, alle speranze, alle illusioni
a quel che voleva essere e che non è.

© 1986 by Maia

martedì 21 agosto 2012

Uno sguardo...una poesia


E mi perdo nell'abisso dei tuoi occhi
'si tanto belli
da parer forgiati per far spicco
sull'antico volto delle pupe d'un tempo.

Dolci e birichini
essi parlan al core, in un silente soliloquio
e come farfalle avide di nettare
si posan di fiore in fiore,
per poi spiccar il vagabondo volo.

E si burlan appresso alle donzelle
coll'incosciente ardor dei vent'anni,
giocando ridenti a rimpiattino.

Zingari occhi senza meta
che inseguir è vano,
chiamarvi vorrei
allorchè il cor s'adombra,
ma la voce è fioca e si perde lontano.

© 1987 by Maia

La bambola




Un classico. Mica solo musicale...

lunedì 20 agosto 2012

Un Amore davvero/1

 

Si ritrovò a singhiozzare. Quelle parole appena lette le avevano fatto risuonare dentro qualcosa di appena conosciuto e al quale aveva dovuto rinunciare, avevano gettato un ponte su quella dimensione da cui era precipitata da poco e dolorosamente. 

Quel pomeriggio di una giornata incerta, credo l'avvertisse insensata, era uscita più stanca del solito dal lavoro, che incominciava a odiare come ogni cosa che prima o poi ti arriva alla gola. Si ritrovò a respirare l'odore familiare dei tanti libri in ordine sparso, impilati o rigorosamente in riga, e non fu sorpresa di trovarsi lì, davanti a quella libreria, senza avere nemmeno deciso o programmato di andarci. Gli occhi, come dita anch'esse curiose, scorrevano con voracità titoli, altezza, colore, carattere e corpo dei tanti volumi di peso, spessore grandezze diversi; non disdegnava neanche di soffermarsi su quelli più sottili, spesso giudicati, frettolosamente e a torto, di medio se non scadente o scarso contenuto, ma lei divorava tutto ciò che fosse parola, che si trasformasse, poi, in pensiero, conoscenza. La sua bellezza interiore, la sua curiosità, si nutrivano di questo. Avvertì che qualcosa animarsi dentro, la stessa che l'aveva spinta in quel luogo e ora la esortava a cercare, frugare in tutti gli anfratti del dentro e del fuori. Lei conosceva bene tali sensazioni che annunciano, che allertano e inducono ad uno stato vigile, attento: ne aveva affidato la sua vita da sempre. Non se ne comprende, al momento, la ragione. Sono fitte, arrivano come spasmi e inducono a soffermarsi e poi muoversi in una determinata direzione e non in altra, a prestare attenzione a qualcosa che dal fuori sta per accadere, ti sta venendo incontro. Qualcosa che faresti bene a cogliere. Eccoti un'altra opportunità, è quanto quella vocina insistente cerca di dire... 

Attirò la sua attenzione come un richiamo che fa stringere lo stomaco. Era lì, su quello scaffale, all’altezza dei suoi occhi, leggermente inclinato rispetto agli altri, primo della fila, con la sua copertina di tela del colore della magia, il viola che a tratti sfumava nel glicine e, in alcune inclinazioni della luce incidente, virava nel magenta. Unico tra tanti ma lì, e solo per lei. Ad altri precluso, intoccabile, forse a taluni addirittura invisibile. Ne lesse il titolo, UN AMORE DAVVERO, e si sentì sradicata dal mondo, senza più un corpo, solo sentimento allo stato puro, quanto di più elettivo dal suo nucleo e spessore emotivo. Comprese all'istante che era il libro che, forse, le avrebbe narrato anche la sua vita, raccontato il suo mito. Se lo ritrovò affannosamente tra le mani, ne aspirò l'essenza, mosse il pollice per aprirlo a caso, dividendolo in due parti diseguali, a una pagina a caso, e incominciò a leggere: 

Voglio solo te. 
21.21: Le lacrime scorrono e scorrono... Non riesco a fermarle! Amore mio, ho bisogno di te!!! 
21:28: Mi hanno mandato un sms, loro aspettano sul ponte la partenza. E io continuo ad aspettare te... Ho bisogno di sentirti!!! E mannaggia a te che non ti sei mai deciso a prendere l'altro telefono, così magari a quest'ora mi avevi già letta senza bisogno di un dannato pc! Ti pregooooo!!! 
21:37: Amore sto annegando, sono sopraffatta dalla tristezza e dalla solitudine... Mai come ora, forse, mi sei sembrato così lontano... Lontano da me… E c'è anche una strana ansia, simile alla paura... Paura di vederti andar via da me! Non voglio apparirti melodrammatica ma... Sto provando questa sgradevole sensazione! E di nuovo, mi sento soffocare! Sto cercando di non bloccare il respiro. Di prendere aria… Amore, ma dove sei? Promettimi che ti ritroverò! Se non potremo sentirci, prometti che non te ne andrai! Potrei sopportare un tradimento... Ma non un tuo allontanamento! Mai! 
21:47: 21:52: Così è questo l'Amore ..davvero? 
21:56: Hanno acceso i motori! 
22:01: Ancora non salpiamo. Resto in attesa. 
22:20: Ancora qui… 

Così è questo l 'Amore davvero? Fu ri-presa dal suo corpo, percepì che le rispondeva tremante e scosso da singhiozzi, mentre lacrime copiose, infuriate, straripanti, ma liberamente libere, grandinavano su quella sua piccola, delicata anima sognante. Chiuse gli occhi e strinse con forza il libro al petto. Che donna era mai questa? Che forza d'amare, in quale potente stato d'amore si trovava a vivere e a urlarlo, incurante del tutto della sua stessa ragione e, mentre lo faceva, della presenza dell'altro? E quest'uomo, al quale si dedicava, chi era? Chi poteva essere, rappresentare per lei, tale da meritare questa indiscussa dichiarazione di appartenenza? Era lui in grado di comprendere questa certezza di un amore? Riaprì gli occhi, vi sfogliò ancora un’altra pagina a caso e lesse: 

Anch’io mi sento svuotata di parole. E questo mi fa capire che senza di te tornerei ad essere quella che ero prima, una pallida ombra di ciò che riesco ad essere soltanto con te. Non c'è attimo in cui io non ti penso: ti prendo per mano e ti parlo mentre cammino nella pineta, inebriata dal pungente odore dei pini, che - non so esattamente perché - mi fa sentire la tua presenza più di ogni altra cosa; oppure mentre mi allontano a nuoto dalla riva, in quel mare blu cobalto e dalla superficie sempre placida. Il tempo qui sembra immobile, fermo. I ritmi quotidiani sono così rilassati, dilatati: una giornata somiglia all'altra ed io finisco col perdere la cognizione del tempo. Tutto al di fuori di questo luogo, in questo clima di pace e bellezza selvaggia, mi sembra così lontano e sfumato... La vacanza ideale per me, eppure la sto vivendo come se fossi all'interno di una bolla: con distacco, indolenza, apatia... Se ci fossi stato tu, tutto sarebbe stato assolutamente meraviglioso, perfetto. Ma tu non ci sei, non posso neanche sentirti se non per quei pochi, brevissimi istanti, che dopo qualche minuto mi sembra solo d'aver sognato. E vivo perennemente nell'attesa di rivederti, di poter sentire di nuovo il tuo odore, di toccare ancora la tua pelle e assaporare i tuoi dolcissimi baci... 

Richiuse il libro mentre ripeteva, muta, le parole della sua eroina: "...di ciò che riesco ad essere soltanto con te...

La tangenziale non era affollata come invece sempre accadeva, ma non se ne accorse nemmeno, non si rese conto di niente. Solo quando girò la chiave per spegnere il motore, ormai ferma e con la spalla appoggiata allo schienale, si accorse di non respirare per la presenza di quel  libro poggiato sul sedile alla sua destra. Era come fosse vivo, presenza che ne evocava altra, ancora più viva, più forte e, per questo, indelebile! Il libro, lui, un corpo, uno spirito. 

Tornarono a bruciarle gli occhi che furono invasi da nuove lacrime. Quella donna... Avrebbe voluto essere lei quella donna. Ma non poteva esserlo, forse non lo sarebbe mai stata, almeno fino a che il suo cuore sarebbe rimasto ostaggio della sua ragione. Doveva leggerlo esplorarlo e al più presto, sapeva però che si sarebbe persa, per ritrovarsi, come spesso le capitava, in quel mondo dell'indeterminato, nebbioso, ma nella speranza di una nuova fase. Ed è in questa nebbia che si attendono le nuove forme che avanzano ma ancora non si distinguono. E non comprendi, comunque, che invece potrebbero essere le vecchie che tardano a scomparire . 

Allungò un braccio, prese il libro e lo infilò nella borsa e, avviandosi verso casa, cominciò a pensare alla sua vita, concentrandosi su quanto già le apparteneva d’importante e di sicuro. Almeno così credeva sarebbe stato e sarebbe riuscita a fare.

sabato 18 agosto 2012

Il più forte


“Non dire niente di là e non gridare, se no ti faccio più male!”

Era sopra di me, più grande e più muscoloso. Mi teneva stretta per i polsi, mentre io cercavo di divincolarmi selvaggiamente, in silenzio, cercando di non farmi sentire.

"Dai, fammi vedere quanto sei forte..."

Mi scherniva, si divertiva, voleva vedemi supplicare, il bastardo! Ma anch’io, nel mio piccolo, ero piuttosto cazzuta e non avevo nessuna intenzione di soccombere. Mi guardava con occhi felini e un sorrisetto sghembo. Sentivo sul viso il suo respiro leggermente affannato. Quando mi fu abbastanza vicino, feci scattare la testa in avanti, raggiungendo con i denti l’incavo fra il collo e la spalla, e strinsi. Emise un grido soffocato e si ritrasse immediatamente. Questo mi permise di alzarmi repentinamente con il busto, facendolo quasi cadere di lato. Cercai quindi di svincolarmi e scappare, approfittando di quel suo attimo di disorientamento, ma lui mi afferrò per i fianchi, attirandomi nuovamente a sé, e mi strinse in un abbraccio serrato, immobilizzandomi definitivamente.

“E' inutile, sono io il più forte!”


 “No!” Gridai in un soffio.


 “Tanto non mi batti! Dimmi che sono io il più forte e poi ti lascio andare…”


 “Mai! Scordatelo!”


Non ne avevo la minima intenzione! Perché, a dire il vero.. Cavolo, mi piaceva da morire! Mi piaceva sentirmelo addosso, lottare con lui, avvinghiarmi al suo corpo in quel modo così animalesco. Mi stringeva e mi faceva male, mi dava dei pizzicotti fortissimi - sui fianchi, sulle braccia - tanto da farmi uscire le lacrime e certamente anche qualche livido. Mi torturava con gusto, ai limiti del sadismo e io ero fuori di me dalla rabbia ma, allo stesso tempo, eccitata nel sentirmi sopraffatta dalla sua superiorità, non solo fisica ma anche psicologica. Sì, perché c’era qualcosa di stranamente sensuale e conturbante in tutto questo, sebbene in quel momento non lo riuscissi a comprendere chiaramente. In fondo, a nove anni, sono ancora ben poche le cose che si riescono a comprendere. Ma era proprio quel qualcosa di così inspiegabile a impedirmi di richiamare l’attenzione di mia madre e di mia zia, che chiacchieravano amabilmente di là, in cucina, ignare di quello che i due mocciosi, chiusi nella cameretta, stavano combinando.


“Ma lo sai che sei proprio carina?”


Mi provocava con quel tono un po' strascicato e ironoco nella voce e il suo tipico sorriso sornione, che in questo momento trovavo decisamente irritante. E poi giù, a ridacchiare come se vedermi in difficoltà fosse la cosa più divertente del mondo. Mentre io, cercando di lottare con maggiore accanimento, avvertivo un caldo improvviso e insolito infiammarmi deliziosamente le parti basse.


Insomma, che dire? Credo che quello fu il giorno in cui mi presi la mia prima cotta. Per mio cugino.


Lui era più grande di me di tre anni e io lo trovavo bellissimo: mi ricordava Elvis Presley, solo senza il mitico ciuffo. Abitavamo in città diverse, ma per anni abbiamo trascorso insieme le vacanze di Natale e buona parte di quelle estive. Avevo tantissimi cugini, una vera tribù, ma lui era il mio preferito e stavamo sempre insieme, appiccicati peggio di due gemelli siamesi. Spesso suscitando la gelosia degli altri. Però, da quella volta, non abbiamo più giocato alla lotta. Peccato.


Purtroppo, per una serie di vicissitudini, nel tempo ci perdemmo di vista e per qualche anno non abbiamo più saputo nulla l'una dell'altro, o quasi. Fino al giorno del suo matrimonio.


 La ragazza con la quale aveva scelto di vivere il resto sua vita era piuttosto carina. Per tutti gli anni in cui ci siamo frequentati, non lo avevo mai visto accanto a un'altra che non fossi io. Devo dire, quindi, che mi fece proprio uno strano effetto rivederlo in quella circostanza, con tanto di anello al dito.


Al ricevimento, mi trovavo nella grande sala del ristorante e stavo parlando con le mie cugine. Ero riuscita a malapena a salutarlo, subito dopo la cerimonia, e da allora continuavo a lanciargli, di tanto in tanto, sguardi fugaci. Lo sorpresi così a scrutarmi con una certa insistenza in diverse occasioni e sempre con quel suo sorrisetto un po' sornione, che non aveva mai perso. Trovai la cosa curiosa ma anche un pochino imbarazzante. Poi, finalmente, lo vidi avvicinarsi, tenendo per mano quella che per me era ancora una completa estranea. Mentre avanzavano, però, lei cominciò a dissolversi in un'aurea evanescente. La musica si fece d'improvviso soffusa, i colori sbiadirono, le persone e le cose persero i loro contorni naturali. Quel momento si srotolò davanti a me con lentezza quasi cinematografica. I nostri sguardi erano completamente persi l'uno nell'altro. O, quanto meno, questo era quello che mi era sembrato di percepire. Quando infine lui mi fu di fronte, di colpo ogni cosa ritrovò la propria consistenza originaria e la realtà mi ripiombò addosso in tutta la sua ordinarietà. Mi presentò a sua moglie, che si era nuovamente ricompattata, dicendole:


“Vedi che bella cugina che ho? Te l'avevo detto!"


Avvampai violentemente e mi maledissi per questo. Per un attimo pensai di andarmi a nascondere sotto a un tavolo, per l'imbarazzo. Ma quando i nostri sguardi si incrociarono ancora una volta, mi accorsi che anche il suo volto era arrossito visibilmente e allora capii. Quel giorno di tanti anni fa, credo di non essere stata la sola ad essermi presa una cotta. Mi sentii improvvisamente sollevata, chissà esattamente perchè. Felice, lo abbracciai e gli diedi un bel pizzicotto sul braccio, ammiccando:


"E poi.... Sono anche la più forte!"



© 2012 by Maela

giovedì 16 agosto 2012

Il tuo addio



Il tuo addio m'è franato addosso
Fradicio, lurido, agghiacciante
E l'abbandono m'ha schernita
Con voce sbavata d'acciadia.

Dal mio profondo, un ribollire
Di lame e di chiodi e di spine,
Del fatale cantar del gallo,
Di un ultimo bacio tradito.

© 2012 by Maela

martedì 14 agosto 2012

Centoquarantasei ore


Sono trascorse centoquarantasei ore, minuto più, minuto meno.

Ho visto le tue esili spalle, la tua nuca, le tue gambe, incerte e fragili, allontanarsi, per lasciarmi aria, spazio in cui riversare i miei detriti, pezzi sbrindellati di me, da ricomporre in qualche modo.

Hai bisogno di immergerti là dove io, in questo momento, non posso e non devo esserci.

Così mi hai detto. E sono rimasta sola.

Sì, lo so: era quello che ti stavo chiedendo, no? Eppure sapevo che avrei guardato intorno a me la desolazione di questo mio spazio dove tu, adesso, non ci sei più; vi avrei riversato appena qualcosa di quell’accozzaglia confusa, accatastata nelle mie stanze più profonde e buie e sarei rimasta così, a osservarla muta, senza capire neanche da che parte iniziare. Non posso, non riesco ad immergermi in questo mare. So già che vi annegherei.

Sono trascorse centoquarantasei ore. Le ho snocciolate tutte, una ad una, come i grani di un rosario.

Intanto, da lontano, mi giungono gli echi del tuo dolore, venati di rabbia antica e delusione. Li ascolto, con un cuore stretto come un panno strizzato. Guardando le mie aride mani attraverso inutili lacrime.  Vorrei alzarmi e gridare il tuo nome, con tutto il fiato che ho in gola. Vorrei farti tornare da me e riempire ancora questo mio vuoto ingombrante con il tuo amore, i tuoi pensieri, i tuoi desideri, la tua poesia.

E invece, continuo a star ferma, paralizzata, a fissare inebetita tutto il mio sconquasso. Perché, in fondo, so che è giusto così. Che è meglio lasciarti fuori. Tenerti lontano dalla mia vita contorta e disperata. Costellata di impossibilità. Dilaniata da invincibili sensi di colpa.

E poi, soprattutto, perché uno spirito libero non lo puoi trattenere. Puoi solo lasciarlo andare.

© 2012 by Maela