Novelle Cousine
Un foglio di luce penetra dalla fessura centrale della pesante tenda verde. Globuli danzanti di pulviscolo lo attraversano leggiadri e caotici, come minuscole fatine, conferendogli un che di etereo e surreale. Mi fa male la testa e mi bruciano gli occhi. Non riesco a stabilire precise connessioni fra i pensieri confusi, che si affastellano nella mia testa, e gli ultimi eventi e resto così, inebetita sul divano, a fissare le fatine danzanti per un tempo indefinito. Cinque minuti, o forse cinque ore. Penso di avere anche un polso rotto, perché non riesco a muoverlo. Questa volta, Franco ha proprio esagerato, ma almeno si tratta del polso sinistro, magari riesco a preparare lo stesso da mangiare.
Per terra intravedo la sagoma di una sedia con lo schienale spezzato e buona parte della biancheria da stirare sparsa sul pavimento. Che buffo... Sembrano indumenti svuotati dei loro corpi, come per effetto di un terribile castigo divino. Puff! Polverizzati all’istante. Decido che devo alzarmi e, a fatica, faccio leva sul braccio sano, scendendo dal divano. Devo avere dei lividi su una gamba che è indolenzita... Mi trascino barcollando verso la finestra, ma un dolore lancinante mi trafigge la pianta del piede. Guardo in basso e nel fascio di luce che si allarga sul pavimento, vedo brillare frammenti di vetro blu. Un flash improvviso sul pesante bicchiere che attraversa la stanza verso di me, mancandomi, mi scuote come un pugno in pieno viso. Il bicchiere si è infranto sulla parete, esplodendo in migliaia di piccole schegge impazzite. Poi il buio.
Devo prendere la scopa e ripulire tutto, per terra è un vero schifo. Tiro da un solo lato la pesante tenda, voglio vedere dove si trova il sole e farmi un’idea di che ora siano. La luce improvvisa mi colpisce gli occhi e il dolore alla testa schizza subito in pole position fra tutti gli altri che mi stanno torturando con insistenza e perfidia. Eppure, fuori è grigio, nonostante non ci sia neanche una nuvola. Grigio è il cielo, grigi i caseggiati, il fumo delle ciminiere, gli alberi sparuti, le persone libere. Grigia la mia intera esistenza. Tiro anche l’altro lato della tenda, mi volto con molta cautela e mi guardo intorno: il soggiorno sembra un campo di battaglia. Avverto, inaspettatamente, un fastidioso rigurgito di ansia, impastato di terrore e vengo assalita da una frenesia incontenibile ai limiti del delirio, accesa da un’improvvisa, spaventosa consapevolezza: se non riesco a sistemare tutto prima che lui torni, per me sarà la fine!
Con un considerevole sforzo, cerco di alzare la gamba indolenzita per controllare se nel piede si sia conficcato un pezzo di vetro, ma perdo l’equilibrio e cado faccia avanti. Non posso fare granché per attutire la caduta con il braccio già compromesso. Così mi ritrovo a terra, bocconi, inerme, devastata. Avverto un conato di vomito salire dalle profondità più oscure del mio essere, provocandomi un tremore incontrollato per tutto il corpo e forti spasmi muscolari. Sono un animale in trappola, e come tale comincio a ululare selvaggiamente, in maniera incontrollata, isterica, senza pudore. Non mi importa se i vicini mi sentono: che sentissero pure, che sapessero tutti cosa succede in questa casa, che non è una casa, è un inferno! Ma tanto è inutile, nessuno mi sentirà, e se anche fosse, farebbero finta di niente, come sempre. Ho male ovunque, fuori e dentro di me, ma continuo a urlare con tutto il fiato che ho in gola, fino a sfinirmi. Allora mi lascio andare, finalmente, a un pianto disperato. Fino a quando il dolore alla testa, al braccio, al piede, alla gamba, diventa un tutt’uno col dolore della mia anima. Dio mio, come ho potuto arrivare a questo punto? Come?
Improvvisamente, prendo coscienza di me, di ciò che ero e di ciò che sono diventata. Un tempo, ormai molto lontano, sono stata umana. Avevo dei genitori che mi volevano bene, degli amici, una vita mia, tutta mia… Ma ora non più. Ora non sono che l’ombra di quella persona. Senza sostanza, senza speranza, solo uno sterco senziente, una vecchia puttana sfatta. Di quella creatura, neanche un lontano ricordo: dei suoi occhi vivaci, del suo corpo fresco e carico di promesse, dei suoi sogni, della sua voglia di vivere… Nulla. Non è rimasto più nulla… Il diavolo bastardo le ha portato via tutto, gettandolo nella sua geenna e cancellandone ogni traccia. E il suo Dio se ne è rimasto beatamente lassù, a guardare. Non ha alzato un dito, non un cenno del capo, niente. Semplicemente, se n’è fregato.
Bene. Adesso non ho più un Dio che possa giudicarmi, perché l’ha già fatto, scagliandomi in questo inferno. Sono rimasta sola. Il diavolo mi ha fatto terra bruciata intorno. Sono sua prigioniera e condannata a vita. E’ la punizione che mi è spettata per aver trasgredito. Onora il padre e la madre, è scritto. E io non l’ho fatto.
Ho conosciuto Franco a diciassette anni. Me lo aveva presentato Monica, la mia compagna di banco. Prima di lui, avevo avuto soltanto un tiepido, seppur tenero flirt con un ragazzo della parrocchia che frequentavo con la mia famiglia, col quale mi ero scambiata al massimo qualche innocente bacetto e niente di più. Figlia unica, genitori piuttosto all’antica - dei bacchettoni, insomma - che controllavano in maniera quasi imbarazzante ogni mio movimento. Non che mi muovessi poi molto, a dire il vero, dal momento che la mia vita si svolgeva prevalentemente all’interno di un’area molto circoscritta, rappresentata da casa, scuola e chiesa. Naturalmente, questo mi aveva precluso la possibilità di fare un po’ di sana e opportuna esperienza con i ragazzi. Ero anche carina, mi dicevano, ma decisamente timida e imbranata. Monica, invece, era il mio esatto opposto. Dotata di una bellezza da pin up e di una vivace personalità, attirava i ragazzi come le api col miele. Io, che l’amore lo avevo praticamente conosciuto attraverso i romanzetti rosa, la ammiravo quasi come fosse una dea, invidiandola in segreto per la sua popolarità e soprattutto per quel suo carattere così spigliato e disinibito, che invece, purtroppo, non apparteneva a me.
Un giorno Monica, durante l’ora di italiano, si girò verso di me e mi chiese: ti andrebbe se ti presentassi uno? E’ un tipo fico!
Il fico in questione, era lo stesso con il quale lei era stata insieme appena un mese prima e per un periodo brevissimo. Me lo aveva descritto come uno un po’ spudorato ma comunque molto simpatico, sebbene fra loro non fosse scoccata la scintilla, chissà come mai... Era più grande di noi di ben sei anni, praticamente un uomo! Pensai che questa avrebbe potuto essere l’occasione per farmi anch’io, finalmente, la mia rispettabile dose di esperienza: e sarebbe stata anche ora! Così accettai di incontrarlo. Naturalmente di nascosto dai miei.
Con la scusa di andare a studiare a casa di Monica, organizzammo un incontro a quattro. Di quella giornata devo dire di non ricordare quasi nulla, a parte il fatto che Franco non mi fece proprio una grande impressione, né fisicamente, né come persona. Ma se Monica me lo aveva sponsorizzato così tanto, era molto probabile che mi sbagliassi. Accettai quindi un successivo incontro a due. Anche la mia seconda impressione non si discostò di molto dalla prima. Però mi lasciai baciare e scoprii a cosa servisse la lingua, oltre alle funzioni fisiologiche a me già note. Al secondo appuntamento, lui già mi frugava dappertutto con mani frenetiche e sfrontate e io, ancora, lo lasciai fare, perché non potevo certo fargli capire quanto fossi pivellina e inesperta, per carità!
Al terzo appuntamento, mi prese in auto, che aveva parcheggiato lungo il marciapiede di una zona periferica della città, poco frequentata. Io non volevo, soprattutto non così, ma le sue urgenze avevano la priorità assoluta sui miei desideri e le mie paure. Quello fu il giorno in cui morii. Prima di penetrarmi e uccidermi, si preoccupò di coprire goffamente con il mio cappotto i nostri corpi - il suo, quello di una bestia in calore; il mio, tremante come quello di un piccolo cerbiatto - per celarli agli sguardi curiosi degli sporadici passanti. Avvertii un dolore bruciante, misto a un intenso, sconosciuto e riprovevole piacere. Il tutto, grondante profonda vergogna e umiliazione...
L'eco antica di quel suo sesso arrogante, che piombava a picco sulla mia incoscienza, sbava ancora, molesta e blasfema, sulle pagine stropicciate della mia memoria, a squarciare, con la stessa identica sfacciataggine, il denso velo del mio sacrario. Tutto il mio mondo prese ad accartocciarsi bruciando, come in una vecchia pellicola proiettata su un grande schermo: i volti delle persone della mia vita, il mio cane, il mio pianoforte, le mie matite da disegno, i miei colori, la mia cameretta; tutti i miei progetti si ritirarono crepitando in enormi buchi incolore, fino a quando non rimase altro che uno smisurato, angosciante, delirante nulla.
Da quel giorno, sono sopravvissuta grazie alla mia più grande e unica risorsa: la mia provvidenziale capacità di dissociazione. La sua non era solo violenza fisica, ma anche e soprattutto psicologica. Così, ogni volta che la sua furia veniva liberata, scatenando intorno a me e dentro di me la sua azione devastante, io schiacciavo un interruttore e uscivo dal mio corpo, limitandomi ad osservare la scena dall'alto.
Lui era un gigante, con le mani a pugno e le sue pretese di amore malato incise a sangue sulla mia pelle e sulla mia anima. Vischioso, è colato in ogni crepa della mia esistenza. E se ne è appropriato. Così di me non è rimasto più niente.
Franco comprese subito che io non avrei mai avuto la forza di oppormi a lui, che di me avrebbe potuto fare tutto quel che voleva grazie alla sua subdola capacità di manipolarmi, confondendomi e abbassando ulteriormente la mia già scarsa autostima. Al punto da rendermi assolutamente dipendente da lui e strapparmi al mio mondo, che, per quanto soffocante, era tutto ciò che di più bello e di più amabile possedevo.
Ora, ho quel che mi merito. Punto. Lui mi ha sepolta viva dentro questa casa, che è diventata la mia tomba. Da qui non esco mai. Non posso. O meglio, solo in caso di estrema necessità – se devo andare dal medico, oppure raggiungere il pronto soccorso, per esempio – e comunque sempre accompagnata da lui. Io gli scrivo la lista delle cose che mancano in casa e lui le va a comprare. Non abbiamo il telefono, così non posso avere alcun contatto con il mondo là fuori. Ha fatto mettere delle pesanti grate di ferro alle finestre, nonostante abitiamo al sesto piano. Forse per timore che mi possa gettare di sotto, chissà. E ha fatto anche insonorizzare tutta la casa, così nessuno può far caso alle sue sfuriate e alle mie urla.
Cerco di tirarmi su, con estremo sforzo, ma non riesco ancora a fermare le lacrime. Il dolore al polso è lancinante, non ce la faccio proprio a sopportarlo! Mi trascino quindi alla finestra, la apro e comincio a gridare disperatamente e a chiedere aiuto. Vedo teste che si alzano verso la mia direzione. Qualcuno si ferma, mi indica col dito. Qualcuno, di rimando, mi urla qualcosa che non riesco a sentire. Allora io grido ancora più forte: Vi prego, aiutatemi! Aiutatemi! Ho bisogno di aiuto!
Dal bar di fronte esce il proprietario. Lo vedo, col suo grosso capoccione pelato e il pataccone d’oro che gli brilla sul petto villoso, gesticolare rivolto ai passanti fermi a guardarmi, roteando il tozzo dito indice all’altezza della tempia. E’ amico del diavolo. Anche lui, vuol farmi passare per pazza. Franco è il suo fornitore principale di coca, per cui non ha nessun interesse a farselo nemico. Vedo le teste abbassarsi di nuovo e ciascuno proseguire come se niente fosse, come se io non esistessi neanche. Aiutatemi… La voce mi si smorza in gola. E’ inutile, è sempre tutto inutile.
Mi volto verso lo sconquasso del soggiorno. E’ meglio che mi metta a lavoro. Se solo il maledetto polso non mi facesse così male! Mi chino per raccogliere gli indumenti sparpagliati sul pavimento e mi accorgo che ci sono tracce di sangue per terra. Una piccola scaglia di vetro si è conficcata nel dito del piede. Me la levo e resto per un attimo ad osservarla. Poi guardo il pavimento. E’ pieno di briciole di vetro. Alzo lo sguardo verso il sole, è molto alto: è ora che io cominci a mettere un po’ in ordine e a cucinare. Prendo la scopa. In qualche modo riesco a raccogliere i pezzi di vetro, ma non li getto nel secchio. Li metto dentro un setaccio e li sciacquo per bene nel lavello della cucina. Poi li adagio sopra un canovaccio, che ripiego in quattro, in modo che rimangano tutti insieme al suo interno e con il martello li frantumo ulteriormente, quanto basta. Dal frigo, prendo la carne da macinare, un cavolo, la pancetta, un uovo, il parmigiano grattugiato, un po’ di prezzemolo, una cipolla e il burro. Lavo il cavolo, togliendo il torsolo e le foglie esterne e sbollento quelle centrali più tenere in acqua salata, quindi le asciugo con un panno. Passo due volte nel tritacarne la polpa di manzo, la pancetta e una mollica di pane. Raccolgo questo impasto in una terrina, aggiungo l'uovo, le briciole di vetro, il parmigiano, un cucchiaio di pangrattato, sale e pepe e amalgamo bene il tutto. Trito uno spicchio d'aglio e lo aggiungo all'impasto insieme al prezzemolo, mescolando accuratamente. Man mano che procedo, il dolore al polso sembra essere anestetizzato dal mio improvviso fervore culinario. Procedo tagliando a fettine la cipolla e la soffriggo con un po' di burro in un tegame. Dispongo un poco dell'impasto della terrina su ogni foglia di cavolo, avvolgendola e legandola con il filo bianco da cucina. Faccio rosolare nel tegame le polpette così ottenute, bagnandole con quattro cucchiai di aceto balsamico e le cuocio a fuoco moderato per 10-15 minuti.
Sento un profumino delizioso spandersi nell’aria e sono pervasa da un’inaspettata quanto sorprendente euforia: sono certa che a Franco piaceranno da morire!
© 2012 by Maela
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