Sono
trascorse centoquarantasei ore, minuto più, minuto meno.
Ho visto le
tue esili spalle, la tua nuca, le tue gambe, incerte e fragili, allontanarsi, per
lasciarmi aria, spazio in cui riversare i miei detriti, pezzi sbrindellati di
me, da ricomporre in qualche modo.
Hai bisogno di immergerti là dove io, in questo momento, non posso e non devo esserci.
Così mi hai
detto. E sono rimasta sola.
Sì, lo so:
era quello che ti stavo chiedendo, no? Eppure sapevo che avrei guardato intorno
a me la desolazione di questo mio spazio dove tu, adesso, non ci sei più; vi avrei
riversato appena qualcosa di quell’accozzaglia confusa, accatastata nelle mie
stanze più profonde e buie e sarei rimasta così, a osservarla muta, senza
capire neanche da che parte iniziare. Non posso, non riesco ad immergermi in questo
mare. So già che vi annegherei.
Sono trascorse
centoquarantasei ore. Le ho snocciolate tutte, una ad una, come i grani di un
rosario.
Intanto, da
lontano, mi giungono gli echi del tuo dolore, venati di rabbia antica e
delusione. Li ascolto, con un cuore stretto come un panno strizzato. Guardando le
mie aride mani attraverso inutili lacrime. Vorrei alzarmi e gridare il tuo nome, con tutto
il fiato che ho in gola. Vorrei farti tornare da me e riempire ancora questo mio
vuoto ingombrante con il tuo amore, i tuoi pensieri, i tuoi desideri, la tua poesia.
E invece, continuo
a star ferma, paralizzata, a fissare inebetita tutto il mio sconquasso. Perché,
in fondo, so che è giusto così. Che è meglio lasciarti fuori. Tenerti lontano
dalla mia vita contorta e disperata. Costellata di impossibilità. Dilaniata da invincibili
sensi di colpa.
E poi,
soprattutto, perché uno spirito libero non lo puoi trattenere. Puoi solo
lasciarlo andare.
© 2012 by Maela
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